mercoledì 17 ottobre 2007

Ditlinde Persefone Mendez - Il cuore dei vittoriosi





favolistici i giorni seguenti sotto un monsone che annunciava una poco promettente glaciazione, inutile provare a scongelarsi, il cerchio si fa troppo quadrato e la diagonale abissale, variazioni della danse macabre in questi fulgidi luoghi o presso i fratelli serbi, curiose forme di scoramento mettono a soqquadro lo spirito, restano copiosi emisferi della pasticceria barocca o bevande neurolettiche, giorno e notte un coro melodioso riempie il cielo, anche quelli accanto, sarà la magia degli gnomi da giardino o dell’altero sguardo della sposa, chiedevano smaniosi quando il prodotto avrebbe visto il giorno o forse la notte, visti i ritmi, sprofondarsi nel blu lapislazzuli delle oniriche miniature, trarne una roba eroica con troppi personaggi intrappolati tra fenomenali avventure, reclusorio con ritratto gigante di padre pio, fogliame che certificava la realtà dell’improbabile periplo e pretendeva di vedere già da sempre il cascante proemio scrupolosamente purificato dalle fusioni posteriori, il record nelle vendite garantirà prestigiose vittorie alla fiera dello spiedo o della pesca ripiena, centrifugate le cervella rimarrà un trasbordo in dancing rusticani o a un incontro di baseball tra psicastenici demotivati e ninfomani, il progresso un incantesimo per scienziati sprovvisti di mezcal o del volo sempre ronzante di seguaci devoti o digiunanti, speriamo tutti che si integri, ecco la saffica che scarica furgoni, altra defezione che altera i nervi di chi sta elaborando nuove morali, vorace dibattito su vite coniugali, progetti salvifici e altre scorie di successo, il paraclito o la voce peripatetica magnetizzavano gaglioffi addetti alle baldorie timorosi di finire in fanteria, teorici del contatto universale e della naumachia, nove porte e un decimo varco, alchimie per il lettore moderno infranto come la lancia di paride nel tumulto della grande troia, vasto attendamento sfavillante, oggi il saggista di grido lo definirebbe ibrido tra woodstock e potenti congreghe dell’oratorio, notevoli l’affluenza e l’overdose di atrocità musicale, carri astutamente decorati per la maestosa missione, persero l’orientamento nella superba cittadella, là dal ponte o dal periglioso varco nutriti raggruppamenti rinchiusi nella bertesca o in viaggio con tamburi, stendardi, aquile pieghevoli e damigiane, tutti i giardini, i boschetti, le siepi, traboccano di fiori e l’aria si spande in piccole onde di gioia, esplosiva kermesse tra padiglioni con antecedenti del barbecue e palchi mobili con castellane disgustate, quante pagine mancano, giornate devastanti polverizzano il rimasuglio di forza pneumatopsichica, essendo il sarcosomatico ancor più deteriorato e bisognoso di restauri o rifacimenti che non si sa mai, nell’ordine un paradisiaco non-stop ormai ciclico che ricorda la traboccante fabbricazione di bronzi rituali ma i pezzi prodotti e il sacro utilizzo potevano forse contenere filtri ipnotici, coriacee operazioni di salvataggio, coordinatori esasperati dalla non produttività, clima ancor più grave del venerdì santo, indiscutibile eccellenza di pensatori logici che tutto vedono prevedono e anticipano con tonalità funeste, trafitti dalla saga, possa sbarcare un esorcista a risanare il tutto nell’attesa dei re magi, ritorno dalle fiandre e da poco apostoliche gite, altri arrostiti dal transito africano e da un safari in saldo con scorta armata, atmosfera sublime e raggiante, niente cene di gala, entusiasmo convertito in dracme da arpionare, non si discute, non siamo ancora a gerusalemme, riapprodano i rapaci proferendo altre assurdità strategiche, non ce la facciamo, affianchiamo qualchedun’altro, diecimila caratteri, piazza dei bovidi da cui fuggire con un caicco o leggerissime nuvole tra la solennità della ridente enclave di serenità e pace dove circa un anno prima transitava il senatore del regno prima d’esser folgorato dalla potenza della basilica mariana, verso la serafica mescita tra intrugli e kilometriche sovradeterminazioni che potevanoo proseguire per quindici ore o giorni, che differenza fa, I know all there is to know about the crying game, gandharva fuori dalle tavole sinottiche prima che finisse il funesto anno, esterno giorno, sole abbagliante, ventanilla con corte metallica, tocco lenitivo e forse di pacificazione di tutte le percezioni, l’indomani molto diverso, mille domande sui perché e i per come e considerazioni del tipo dev’essere stata dura per lui, l’amico che doveva sapere e proprio non riusciva a sospendere il giudizio o forse si era persuaso che fosse una storiella hard-core, in un bovindo o in chissà quale golfo mistico, sognando una non-conclusione modello matador senza consacrarsi a dionisiaci protocolli, mal d’auto continuo in mezzo a ottusi mitomani e altre fiorite sindromi da riempire una summa dei lazzaretti o iniziarsi ad ammaestramenti cabalistici, immotivati rovesci invasero il ridente spazio, passaggio in capiente mitreo dalle raffigurazioni psicotrope, acustica che poteva procurare trance, il quatuor spossato in fuga con calici di rosso, fuori un freddo crudele, c’è tanto da imparare