sabato 23 agosto 2008

Particelle Instabili - L'eremita







L’eremita è un segaiolo che ha superato la fase banalmente porno e si masturba solo andando in un cinemino dove di pomeriggio proiettano il documentario
Silent Witnesses: America’s Historic Trees
Così detto sembra un segaiolo delle piante ma come si capirà meglio poi lo è del fotogramma.

TUTTA LA STORIA È MUTA:
La storia si apre con l’eremita, probabilmente spettinato e col cappotto stazzonato, che cammina spalle basse e accosto al muro di una città inutile. Passa davanti a varie vetrine di porno shops e cinemini osé senza curarsene. Si ferma davanti a un cinema dove proiettano il documentario Silent Witnesses: America’s Historic Trees. Sul manifesto c’è il titolo e un albero dall’aspetto di un enorme fallo zigrinato di bozze grasse.
Lui compera il biglietto scambiando uno sguardo di complicità (non ricambiato) con un cassiere pelato. Entra nella sala, che è completamente vuota.
Siede in prima fila. Vediamo scene alternate del documentario e di lui. Il documentario deve essere il più abulico e trito possibile, come il titolo promette: grandi paesaggi, alberi dall’aspetto vetusto, inquadrature di nidi, scoiattolini, superstar di 5-6 anni prima che appaiono come cameo a introdurre questa o quella sequoia.
Mentre il film procede implacabile, vediamo invece l’eremita sedersi in attesa affannata, guardare con aria sempre più arrapata, sbottonarsi la patta. Si vede che il membro è legato alla base da un giro di fil di ferro che lo stringe mostruosamente. Intorno al fil di ferro è gonfio e violaceo da ambo i lati, con bolle inquietanti e con purulente zone in rilievo. Lungo tutto il fusto spiccano vene scure che s’intrecciano convergendo in una cappella sproporzionatamente gonfia e costellata di capillari semiesplosi.
L’eremita si fa una sega muovendo su e giù della pelle che parrebbe altrimenti morta, mentre il membro resta sempre gonfio e molle nel contempo. Si vedono di lui espressioni indecifrabili tra dolore e piacere. Lacrime.
Primo piano di lui su cui appaiono immagini del documentario come se gliele proiettassero in faccia.
L’eremita manda un gemito (unico suono della storia) e fa una smorfia disumana; poi con mani tremantissime slega il filo di ferro e lascia spazio a un’eruzione in cui sperma, sangue e fango sgorgano accosti ma non mescolati nello stesso getto. Gliene spruzza sulla faccia, sui vestiti, sui sedili davanti, ovunque.
Pausa, in cui per tre o quattro vignette si vede solo il documentario. L’eremita riannoda il fil di ferro, si ricompone, esce gettando uno sguardo complice al cassiere che sta leggendo Linus e non lo caga.

NELLA PARTE DEL CINEMA, tutto sta all’abilità del disegnatore a costruire il montaggio tra scene del documentario e scene dell’eremita, rendendo il più assurdo possibile il contrasto tra un film sempre monotono e un accrescersi dell’eccitazione.
Si può fare con una serie circa di
2 vignette film – 1 eremita
1 film– 1 eremita
1 film – 2 eremita quando lui sta per venire. Poi la pausa tutta film che dicevamo.

Dopo che è uscito dal cinema, c’è una bella dissolvenza.
Stessa vignetta dell’inizio, l’eremita cammina lungo i muri, etc etc, ignorando il porno vero. Arriva allo stesso cinema di ieri, e vede che è chiuso. Sulla saracinesca sta scritto solo CLOSED, misteriosamente. Si capisce che lui è stupito.
Passeggia un po’ senza meta per la città. Entra in un parco. Vaga. Bambini, paperi nel lago, cani che afferrano il freesbee coi denti.
Si siede su una panchina in mezzo a due alberi esattamente identici a quelli ritratti nel documentario. Ma lui sembra non vederli, e si mette a piangere sileziosamente. Magari un’inquadratura ravvicinatissima dell’occhio con le lacrime che debordano può instaurare un’affinità visiva tra lacrime e sperma, ma non necessariamtente.



Mentre la sequenza d’immagini è tutta muta, le si potrebbe accostare il seguente testo, un lungo delirio a proposito dell’eremita dei tarocchi. Il testo andrebbe piazzato così:



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VIGNETTA VIGNETTA VIGNETTA

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VIGNETTA VIGNETTA VIGNETTA

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VIGNETTA VIGNETTA VIGNETTA


Il che non solo perché la pagina ricordi le figure dell’ I-Ching (cosa peraltro desiderabilissima), ma perché crei un attrito ulteriore tra lettura verbale (che deve andare avanti e indietro) e visiva (che procede più lentamente, e a scatti)
ECCO IL TESTO CHE VA ACCLUSO IN DIDASCALIA ALLA STORIA:

L’eremita ha la più dura delle mazze: pesta e ripesta mandragola e corniolo, trita il narvalo sui cocci d’ossidiana, sfibra il tiglio. Doma l’impeto sottile ma imperioso che si leva a notte fonda dai più oscuri e muscosi penetrali. Dove la roccia si fende, languidamente scostata dall’erompere del seme che proietta senza tema i suoi pazienti virgulti, lì si china l’eremita per vedere da vicino cosa accade quando il lento incatenarsi delle forze ctonie vibra, per la prima volta, solleticato da un anelito che a volte vorrebbe chiamare incertezza, talatra preferirebbe di designare quale desiderio (se solo tale parola trovasse luogo nel frastagliato lessico dei sassi), più spesso avrebbe forma di cicloide immensamente fissata su una lastra di basalto. L’eremita è un segaiolo. Conosce il lamento segreto di borragini e trifogli. Essendogli ignota la fretta, muta in polpa le scorze più tenaci. Di spora in spora, per spirali di soffioni, egli spande il suo sentire per i rami che s’inarcano gravati dalle pigne, per i fili sottili dei crescioni, sulle sbobbe schiumose che debordano silenti dalla carogna di un cinghiale ferito dal rotolare di un pietrone, trascinatosi che sputava sangue e merda per tre settimane, alla fine accosciato lì tra le foglie di castagno e confuso col paesaggio. L’eremita non rinuncia mai a nulla e dispensa preziosi consigli a chi s’asside, soppesando con libra precisa il trascorrere del tempo, sezionando senza enfasi il carapace generoso dei più antichi tra i cheliridi, dedicandosi con muta devozione alla geologica pratica della coobazione, peraltro non necessariamente intendendola. L’eremita, quando vede delinerasi l’arcobaleno tra i fili del ragno all’aurora, lo chiama amico, e ne viene ricambiato. L’eremita ha la più fina delle code: punge la volpe come il tafano, e tutto cristallizza col suo veleno nell’atto stesso in cui lo polverizza e soffia via, distrattatamente, a un nuovo stato. Se fosse fuoco, tutto quanto lambirebbe senza cenno di dolore; se fosse acqua, marcirebbe nelle ossa di una quercia millenaria per svaporare finalmente quando la scorza si squaglia, e mostra le nodose involuzioni. Il suo saio possiede l’attrito della pomice; col suo semplice passare, lui preleva dalla selva gli invisibili campioni di un’enciclopedia naturale che si va a depositare, diaristicamente, tra le leve e gli snodi di un corpo comunque obsoleto. L’eremita conosce la lingua segreta delle ghiande; sa leggere i ritmi con cui maliziose le felci socchiudono foglie al grigio brumoso di selva nell’alba d’agosto; sa dire il sesso dei funghi e vede il messaggio di un burattinaio infinitamente lontano lasciato nelle pieghe in cui s’avvolve il muschio per le crepe dell’olmo piagato dai lampi. Non c’è borborigmo di orso in letargo che l’eremita non abbia già sentito, e sentirà, e riconosca per fraterno. Avverte il proprio nome nel balzare strascinante dell’anfibio. Quando la larva lascia l’alveo glutinoso della cova, lui è lì. Lo reincontrerà davanti alle mandibole che stringono. I massi si piegano ad accoglierlo dove alfine si siede a contemplare, oppure li aveva già scavati col pervicace strofinare delle chiappe. Nelle volute del suo infaticabile pestello la materia, semplificata, si acquieta un istante, e tira il fiato. Sotto il volto l’eremita vede il teschio; sotto il teschio, l’atomo.